Il bianco e la sete (quarta parte)

I tre nipoti continuarono a giocare, rincorrersi, lanciarsi palle di neve, ad abbozzare la costruzione di un pupazzo. Non si curavano né del freddo né del particolare che tutta quella neve potesse bagnarli e che potessero ammalarsi. Il divertimento era troppo e la bassa probabilità che questo evento climatico potesse accadere nuovamente, li persuase a non fermarsi. Efisietto giocava con suo fratello e con suo cugino senza mai mollare un momento. Anche se la sete continuava a devastarlo, non voleva smettere. Matteo saltò e lanciò una palla per colpire Diego che si spostò appena in tempo verso Efisietto che, per evitare di finire addosso al cugino, scivolò e cadde con il sedere a terra. Matteo corse verso Diego e per accorciare la strada saltò Efisietto. La reazione dell’anziana donna fu immediata. «Risaltalo!» urlò Tzia Adalgisa. Tutti si voltarono verso di lei.
«Perché?» domandarono le due figlie.
«Speranza, di’ a tuo figlio di saltarlo di nuovo».
«Ma perché?» insistettero le due donne
«Se no non cresce più».
«Questa poi!» commentò Speranza. «Mamma, ancora credi a queste cose? Matteo, risalta Efisio!» disse al figlio, senza troppa convinzione. Efisio, sbuffando, si chinò nuovamente per permettere a Matteo di saltarlo.
«Superstizioni!» aggiunse Caterina.
«È così» concluse Tzia Adalgisa.
«Mamma, ho troppa sete, perché non mi passa?» domandò Efisio. Tzia Adalgisa gli aprì la porta di casa. «Vai a bere».
«Sono preoccupata» confessò Caterina a sua madre, «è da oggi che Efisio non fa altro che lamentarsi di questa sete. Non sarà mica malato!» Tzia Adalgisa non rispose, inarcò le sopracciglia e continuò a fissare i due nipoti che giocavano a rincorrersi con la neve in mano.

Che sciocchezza, questa della sete, pensò l’anziana. Che stupidaggine; uno ha sete, e quando ha sete ha sete, perché dovrebbe essere malato? …Malato. Chi è che non ha sete in questo paese! Persino io ho sempre sete! L’anziana donna si voltò verso le sue due figlie e provò un profondo sentimento di amore verso di loro. Lo provava ogni volta, ma in quel momento, con la neve che scendeva copiosa e che si depositava nel suo giardino, quel sentimento sembrava più intenso. Più chiaro. Il suo mondo era diventato irriconoscibile, e come per distinguersi dal tutto, la consapevolezza di ciò che provava si era palesata ai suoi occhi. L’anziana ripensò a suo marito e si concesse di farsi accarezzare da un vento di presenza. Non lo aveva mai fatto, né quando lui era in vita e tanto meno quando era morto. Meglio!, avevano detto in coro le sue due figlie alla notizia della morte del padre. Meglio! Finalmente! Ma poi si erano presentate al funerale. C’erano tutti, persino i suoi generi. Ripensò alle lacrime che aveva versato e comprese che non erano per il dolore della scomparsa, bensì per ciò che non aveva vissuto, per ciò che non aveva osato fare e che si era lasciata scivolare via. Stupidaggini, si disse. Sciocchezze, anche quelle.

Efisio uscì dalla casa della nonna mogio perché, nonostante avesse bevuto, la sete non gli era passata. La donna prese il suo posto. Entrò, si avvicinò alla stufa e si soffermò a fissare sua nipote intenta a leggere un libro.
«Non giochi?» le domandò. «Esci, i libri ci saranno sempre» Elena scosse il capo.
Tzia Adalgisa si avvicinò al cesto della legna, prese un pezzo di una vite sradicata prima dell’inverno dal genero e la gettò dentro la stufa. Avrebbe parlato con Efisietto e l’avrebbe ascoltato come sua madre non aveva ascoltato lei. Possibile che solo lei si era resa conto di cosa significasse quella sete. Dodici anni era l’età giusta, l’età di Efisietto, e se lei non avesse fatto nulla, quella sete se la sarebbe portata nella tomba.

(continua)

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