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Il bianco e la sete (terza parte)

Tzia Adalgisa, nonna di Efisietto, era seduta di fronte alla stufetta a legna, al centro dell’andito di casa. Con le mani quasi attaccate al ferro rovente, si riscaldava dal freddo che arrivava da fuori. Non c’erano altre fonti di calore, nessun termosifone, nulla, se non la stufa a legna. Seduta con lo sguardo rivolto verso l’esterno, la donna osservava i fiocchi che si appoggiavano sul cemento. Poteva vederli chiaramente attraverso la grande vetrata che occupava tutta la parete che si affacciava sul cortile, e anche se la pianta di limoni era piazzata proprio di fronte, non impediva la visuale. L’anziana donna trascorreva il suo tempo guardando la televisione, tagliando bucce di arance da mettere sopra la stufa e cambiando la legna di tanto in tanto. Era vedova, da molti anni, ma la sua vita antecedente la morte del marito non era diversa da quella attuale. Tzia Adalgisa prese un tizzone e lo inserì con forza dentro l’imboccatura. Il meccanismo della stufa era semplice: dall’alto si inserivano i pezzi di legno, che andavano a finire sul fondo dove prendevano fuoco e, trasformati in brace, finivano dentro un cassetto in ferro alla base della stufa. Quando il cassetto era pieno lo si poteva estrarre e pulire.

Non era la prima volta che Tzia Adalgisa vedeva la neve e, certamente, qualcuno sarebbe sbucato dal portone di casa sua e si sarebbe fiondato a giocare in cortile. I suoi numerosi nipoti sarebbero a poco a poco convogliati tutti in casa sua, ne era certa. E allora la pace surreale che avvolgeva la sua casa sarebbe terminata. Suo marito, se fosse ancora vivo, le avrebbe certamente rimproverato un pensiero simile: lui adorava i nipoti. Lei, invece, restava fredda: poche carezze, poche parole dolci, ogni gesto era pesato, ben controllato. Non c’era spazio per eccessive sdolcinature, non c’era spazio per nessun tipo di eccesso. Il suo viso era sempre teso e serio, e raramente si lasciava andare a qualche sorriso. Tzia Adalgisa ruotò la testa verso destra e verso sinistra, la casa era vuota e non arrivava nessun rumore dall’esterno. L’incongruenza del suo sentire con il suo agire le dava da pensare. Che fosse incapace di dare affetto? O forse il cordoglio della vita si era talmente radicato nelle sue viscere da impedire ogni possibilità diversa? A una vita di stenti e di sofferenza non era seguita una vecchiaia più morbida. L’amarezza non aveva lasciato spazio a un sapore diverso, anzi. La donna, stanca di quel perenne pensiero, si alzò e mosse qualche passo verso la vetrata. La neve. Anch’essa faticava a riconoscere ciò che aveva di fronte. La neve aveva cancellato ogni memoria del paese e tutto era divenuto impreciso. Nonostante il caldo di casa non fosse eccessivo, fu comunque sufficiente per appannare gran parte dei vetri, ma questo non le impedì di notare due figure, seguite da una terza, fiondarsi dentro il cortile di casa e inscenare una battaglia di neve agguerrita e con tanto di colonna sonora. Tzia Adalgisa aprì la porta.
«Fate attenzione a non cadere! E non bagnatevi!» urlò. Ma Efisietto, Diego e Matteo non diedero ascolto alle raccomandazioni della nonna. «Caterina, non farli correre» insistette Adalgisa con la figlia più grande, che era entrata pochi istanti dopo.
«Mamma, devo legarli? Lasciali giocare: c’è la neve!». L’anziana rientrò in casa e indossò il cappotto, poi uscì, chiuse la porta dietro di sé e si fermò fuori con gli altri.
«Nonna entro dentro», disse improvvisamente Elena «ho freddo».
«Non toccare niente!» precisò subito la donna.
«Mamma,» disse Caterina, voltandosi verso l’anziana «prima di andare via ti lascio Efisio, che devo portare Diego dal dottore».
«Che non tocchi nulla, però!» puntualizzò Adalgisa.

(continua)

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